martedì 30 dicembre 2008

Auguri per l'anno che verrà.

La mattina del primo gennaio alle 12.00 vi aspettiamo presso il Gran Caffè di Cava de' Tirreni, piazza Duomo, per scambiarci i migliori auguri per l'anno nuovo.
AUGURIAMOCI INSIEME IL MEGLIO!
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Israeliani e Palestinesi sono condannati a parlarsi

Conversazione della rivista LIMES con Menachem Klein, professore di Scienze politiche all’università di Bar Ilan e firmatario degli accordi di Ginevra del 2003.

LIMES: Professor Klein, come vive Israele il suo 60° anniversario?
KLEIN: Con un misto di angoscia e rassegnazione: angoscia per la sensazione di perenne accerchiamento, di ostilità che proviene dal suo intorno geografico; rassegnazione per l’apparente immutabilità di questa situazione, che sessant’anni di guerre e negoziati falliti non sono riusciti a mutare. L’economia va bene, l’esercito israeliano, nonostante le prove non brillanti degli ultimi tempi, rimane il più forte della regione, ma il paese è frustrato, disilluso, fatalista: lo è sia la sua élite dirigente che la sua opinione pubblica e questo, probabilmente, rappresenta il principale ostacolo alla pace.
LIMES: In che senso?
KLEIN: Nel senso che, oggi, il problema in campo israeliano non risiede tanto nella condotta di Olmert, quanto nella crisi di legittimità che, complici i recenti scandali, investe il suo governo e la sua figura, rendendogli impossibile “vendere” alla propria opinione pubblica qualsiasi concessione, anche modesta, alla controparte. Quel che è peggio, è che la stessa situazione si riproduce in campo palestinese, dove la popolarità di Abbas è ai minimi storici, soprattutto a causa della manifesta incapacità di forzare Israele al negoziato. Insomma, in questo frangente ciò che Olmert e Abbas fanno è sostanzialmente ininfluente; a contare è la loro immagine presso i rispettivi elettorati, e tale immagine non potrebbe essere peggiore. Ma questo, purtroppo, è solo il primo dei problemi.
LIMES: Quali sono gli altri?
KLEIN: C’è intanto l’abisso che separa le pretese negoziali di israeliani e palestinesi. Al momento non esiste alcun testo, alcuna mappa su cui le due parti possano intavolare un dialogo. Reduci dai ripetuti fallimenti precedenti, nessuno si illude di poter raggiungere a breve un accordo dettagliato. Fatta salva questa comune dose di realismo, le rispettive posizioni appaiono antitetiche. I palestinesi puntano ad un accordo immediatamente attuabile, che contempli il ritorno di Israele ai confini del 1967 e il principio della “compensazione alla pari”, in base al quale ogni metro di terra incorporato da Israele in deroga a quel confine, deve essere compensato con un’analoga cessione territoriale a favore del futuro Stato palestinese. Israele, viceversa, persegue la tattica dilatoria già sperimentata con la road map statunitense: punta, cioè, ad una mera dichiarazione d’intenti, che non impegni nessuna delle due parti e, dunque, possa essere tranquillamente ignorata.
LIMES: E gli Stati Uniti, storici mediatori della contesa?
KLEIN: Questo è il terzo elemento critico. È chiaro che, in questo frangente, Bush non è interessato a risolvere il conflitto; piuttosto, si limita ad una “gestione corrente” che minimizzi, per quanto possibile, i danni. Così, dall’obiettivo di uno Stato palestinese territorialmente continuo la Casa Bianca è passata al più modesto traguardo di uno Stato palestinese con confini provvisori. Pesano, su questa attitudine, l’approssimarsi delle elezioni presidenziali e il precedente fallimento di Clinton, dal quale il suo successore deve aver tratto la convinzione che quello israelo-palestinese è un conflitto insolubile, su cui non vale la pena applicarsi più di tanto. LIMES: Che conseguenze produce tutto ciò sulle prospettive di un accordo?
KLEIN: La conseguenza più immediata, sotto gli occhi di tutti, è il completo stallo del processo di pace. E questo perché, complice il benign neglect statunitense, Israele è lasciato sostanzialmente libero di dettare tempi, modi e oggetto del negoziato. Ovvero, di sabotare il negoziato stesso. In prospettiva, questa situazione favorisce la radicalizzazione delle opinioni pubbliche israeliana e palestinese, le cui posizioni tendono a farsi via via più intransigenti: un copione, purtroppo, già visto.Il pericolo maggiore, però, sta nella crescente sproporzione di forze tra le due parti in campo. Attualmente, ci sono circa 500 blocchi stradali israeliani nei territori, mentre gli insediamenti non hanno mai cessato di espandersi. Un recente studio della Banca Mondiale ha evidenziato che, nonostante i 7,2 miliardi di dollari in aiuti donati dalla Conferenza di Parigi, l’economia palestinese “cresce” del -2% all’anno. Una crescita negativa che precipiterebbe a -7% se gli aiuti internazionali dovessero cessare.
LIMES: Il frazionamento dei territori soffoca l’economia palestinese, il che a sua volta alimenta l’esasperazione dell’opinione pubblica. Ripristinare un minimo di continuità territoriale nello spazio palestinese: è questa, dunque, la priorità?
KLEIN: Sì, non a caso la rimozione dei blocchi è stata il leit motiv dei numerosi – quanto infruttuosi – appelli rivolti dal segretario di Stato Rice al governo di Gerusalemme.
Il problema è che questo capillare sistema di controllo territoriale è ormai parte integrante dell’apparato di sicurezza israeliano, messo in piedi con la convinzione che i palestinesi non siano in grado di controllare il proprio territorio, anche laddove fossero messi in condizioni di farlo. Da qui a considerare ogni palestinese un potenziale sospetto, il passo è breve. Tant’è che, in media, tra 8 e 11mila palestinesi affollano costantemente le carceri israeliane. Ne consegue che, allo stato attuale, quella palestinese è una leadership fittizia, perché impossibilitata a svolgere molte delle funzioni di governo che configurano l’esercizio di una reale sovranità territoriale. La Palestina è, a tutti gli effetti, un protettorato israeliano.
LIMES: Ma per quale ragione Israele dovrebbe essere interessata al mutamento dello status quo, se questo fa gioco ai suoi interessi?
KLEIN: Perché questa sproporzione di forze, perseguita da Israele in nome delle sicurezza nazionale, rischia di rivelarsi un boomerang. Tra dieci anni, in virtù degli attuali trend demografici, i palestinesi saranno maggioranza numerica, non solo nei territori, ma anche all’interno dello Stesso stato ebraico. Il quale cesserà di essere tale, ovvero perderà la sua natura di Stato etnico, strenuamente difesa dalla leadership israeliana. Il risultato rischia di essere la balcanizzazione di Israele: due etnie che si combattono sotto la stessa bandiera, con l’aggravante che l’etnia numericamente maggioritaria, quella araba, si troverà a sottostare ad un sistema di regole disegnato per escluderla e per favorire l’etnia ebraica. L’unica alternativa a questo disastroso scenario è la soluzione dei due Stati, con un ritorno di Israele ai confini del 1967. La questione non è se vi si arriverà, ma quando: dettaglio tutt’altro che marginale, dato che più si procrastina la pace, maggiore sarà il risentimento che intossicherà i rapporti fra i due futuri vicini.
LIMES: Prima o poi Israele dovrà dunque risolversi a trattare con Hamas, con la prospettiva di consegnargli le chiavi del futuro Stato palestinese. Ritiene questa una strada accettabile?
KLEIN: Su Hamas il mio punto di vista diverge sostanzialmente da quello di molti osservatori. Dalla clamorosa vittoria elettorale del 2006, mi sono preso la briga di analizzare i documenti dell’organizzazione e mi sono reso conto che essa è di gran lunga più pragmatica di quanto Israele, l’Occidente e i suoi stessi proclami propagandistici la dipingano. Ufficialmente, Hamas non rinuncia ai suoi principi ispiratori: è restia a siglare un accordo con Israele, perché ciò comporterebbe il pieno riconoscimento dello Stato ebraico e rivendica ancora il ritorno integrale dei rifugiati. Tuttavia, da quando è forza di governo, essa ha lo stesso problema di tutte le altre formazioni politiche che operano in un regime rappresentativo: conquistare il consenso dell’opinione pubblica. Se questa accetta un accordo di pace, Hamas si troverà a dover fare altrettanto, modificando l’atteggiamento di totale chiusura verso Israele e Stati Uniti. Per questo credo sia fondamentale sottoporre un eventuale accordo al voto di israeliani e palestinesi: di fronte ad un sì dei due elettorati, le rispettive leadership politiche non avrebbero più scuse.
LIMES: Se Hamas è così pragmatica, per quale ragione non sembra particolarmente interessata a mantenere la hudna (tregua) siglata con Israele?
KLEIN: Perché tra le condizioni non negoziabili da essa poste vi è l’estensione del cessate il fuoco alla West Bank. Cosa che, ovviamente, Israele non è disposta a concedere, in quanto minerebbe alla base il suo sistema di sicurezza.
LIMES: Crede che la liberazione di Marwan Barghouti, il leader di Fatah attualmente detenuto in Israele, possa favorire un dialogo costruttivo?
KLEIN: Sì, anche se Gerusalemme dovrebbe essere pienamente consapevole delle potenziali conseguenze di tale gesto. Tra due anni, la Palestina tornerà alle urne per il secondo voto presidenziale della sua storia. In caso di liberazione di Barghouti, le probabilità che Fatah vinca le elezioni sono piuttosto alte, anche perché l’attuale presidente, Abbas, ha già annunciato di non volersi ricandidare. Israele è pronta a trattare con un leader carismatico, che ha animato le due intifada ed è tutt’ora considerato dai servizi israeliani alla stregua di un nemico pubblico? Liberare Barghouti implica riconoscere alla controparte palestinese, qualsiasi ne sia il leader, pari dignità al tavolo negoziale. Sarei il primo a rallegrarmi di un simile sviluppo.
LIMES: Senza nulla togliere al suo ottimismo circa l’influenza della democrazia sull’attitudine della leadership palestinese, c’è però un’altra incognita che pesa sul futuro dei negoziati: l’Iran. Questo è visto da più parti come il vero avversario di lungo periodo di Israele e quello di gran lunga più pericoloso.
KLEIN: Questo è ciò che pensa anche parte dell’establishment israeliano, nel quale è da tempo in corso un intenso dibattito su quali debbano essere le priorità strategiche di Israele. C’è chi ritiene necessario concentrarsi sulla questione palestinese e chi, viceversa, vede nell’Iran una minaccia esistenziale. Minaccia che, però, non può essere affrontata contemporaneamente a quella palestinese, dato che Gerusalemme non è nelle condizioni di combattere su due fronti. Pertanto, secondo i fautori di questa posizione, Israele dovrebbe concedere ad Hamas quel tanto che basta a rabbonirla, per avere poi mano libera nei confronti di Teheran.
LIMES: Condivide questa visione?
KLEIN: Assolutamente no. Sinceramente, preferisco lasciare da parte i grandi scenari regionali a favore di un approccio “locale”, forse meno suggestivo ma, credo, più realistico. Non dico che il contesto regionale non abbia una sua rilevanza, ma il cuore della questione mediorientale rimane il conflitto israelo-palestinese e il cuore di questo conflitto rimangono, appunto, Israele e la Palestina. Gli israeliani guadagnerebbero certamente in tranquillità se il presidente iraniano Ahmadi-Nejad non minacciasse in continuazione di obliterare Israele dalle carte geografiche, ma ciò che toglie loro il sonno è la presenza, ai loro confini, di una popolazione ostile, precipitata in una condizione di caos e arretratezza croniche. Dal canto loro, i palestinesi possono rallegrarsi di sapere i “fratelli arabi” dalla loro parte, ma poi è con i blocchi stradali israeliani e con la povertà endemica che devono fare quotidianamente i conti. È questo ad occupare le menti e le vite di israeliani e palestinesi, più che l’attitudine di Teheran.
LIMES: Sarà, ma resta il fatto che Israele sconta un’esiguità territoriale che lo rende facile bersaglio di atti ostili e potenzialmente devastanti, come i razzi qassam che a intervalli regolari piovono dal Libano. È noto che dietro Hizbullah c’è la Siria, dietro la quale, a sua volta, si intravede l’ombra di Teheran. E così si torna al punto di partenza.
KLEIN: Non c’è dubbio che il Libano rappresenti una seria minaccia alla sicurezza di Israele. Ma il binomio Hizbullah-Siria, con l’immancabile appendice iraniana, non rende giustizia della complessità della situazione. Alla base della quale non c’è tanto la longa manus iraniana, quanto una polverizzazione dei gruppi terroristici riconducibile, ancora una volta, alla strategia israeliana. Fiaccando la leadership palestinese fino a ridurla all’impotenza, Gerusalemme ha reso di fatto incontrollabile la miriade di fazioni armate che, spesso, non rispondono né ad Hamas né a Fatah. Una galassia di gruppuscoli terroristici più o meno riconducibili al jihad, che in molti casi agiscono singolarmente, in una logica che potremo definire della “guerriglia fai da te”. Questo, oggi, è il vero incubo strategico di Israele.
LIMES: Qual è, dunque, la sua ricetta per uscire dallo stallo? Quale crede possa e debba essere il ruolo della futura amministrazione americana?
KLEIN: Non esiste una soluzione semplice ad un problema complesso come questo. Se, come abbiamo detto, lo scoglio attuale è soprattutto quello della leadership, molto dipenderà dalle prossime elezioni palestinesi e dall’evoluzione della complessa situazione politica israeliana. Sicuramente non mi aspetto che il prossimo governo statunitense, qualunque esso sia, svolga un ruolo determinante. Al di là dell’atteggiamento dell’attuale amministrazione, Israele deve smettere di credere che l’America sia disposta a spendersi per imporre ad israeliani e palestinesi ciò che è bene per loro. Dall’ottica di Washington il conflitto arabo-israeliano, per quanto rilevante, rimane un assunto di politica estera, nel quale la Casa Bianca si limiterà a fare i propri interessi. I quali, al momento, consistono fondamentalmente nel perpetuare la sproporzione di forze a vantaggio di Israele, con tutte le implicazioni che, in prospettiva, ne conseguono. LIMES: Le è stato fra gli artefici dell’accordo di Ginevra del 2003. Crede che quell’esperienza possa servire ancora?
KLEIN: Il negoziato di Ginevra ha dimostrato che, tecnicamente, un accordo di pace è possibile. Esso non ha prodotto la pace, è vero, ma ha messo a punto una tecnica negoziale – composizione dei team di negoziatori, modalità di conduzione delle trattative, scelta dei temi cui dare priorità e individuazione dei possibili punti d’incontro sugli aspetti più controversi – che, ad oggi, risulta ancora valida. Metterla a frutto, però, dipende solo da noi.